di Federico Trinchero
«Nei momenti più difficili emergono degli eroi e non dubito che degli eroi esistano nella Repubblica Centrafricana per alzarsi, come un solo uomo, per dire no alla violenza, no alla barbarie, no alla distruzione di se stessi». È questo l’appello che l’arcivescovo di Bangui, il cardinal Dieudonné Nzapalainga, ha rivolto alla capitale e all’intera nazione in questi giorni drammatici, carichi di tensione e di tristezza.
Cos’è successo a Bangui? La mattina del primo maggio, durante una celebrazione nella parrocchia di Notre Dame de Fatima (a poca distanza dal nostro convento), un gruppo armato proveniente dal quartiere Km5 (un’enclave a maggioranza musulmana, da anni il focolaio principale delle tensioni della capitale) ha aperto il fuoco sulla gente in preghiera provocando morti e feriti. L’incursione è avvenuta come rappresaglia in reazione ad un tentativo da parte delle forze dell’ordine di catturare alcuni elementi di questo gruppo armato che, di fatto, tiene in ostaggio la capitale e alcuni stessi musulmani del quartiere.
I fedeli a Fatima avevano appena proclamato la loro fede e stava per iniziare l’offertorio. Ma la Messa è continuata con il sacrificio di sedici cristiani, tra i quali un sacerdote, l’abbé Albert Tungumale Baba. Lo scontro è poi continuato – per giorni – in altri quartieri della città provocando altri morti, altri feriti e la distruzione di due moschee. L’episodio di Fatima, che ha ferito e lasciato quasi incredula l’intera città, è avvenuto inoltre a poche settimane dell’uccisione a Séko (nel centro del paese) di un altro sacerdote, l’abbé Désiré Angbabata, insieme a undici suoi parrocchiani.
L’abbé Albert, settantun anni e tra i sacerdoti più anziani del clero di Bangui, era un pastore stimato e conosciuto per la sua semplicità e simpatia, e soprattutto per la sua opera discreta e infaticabile in favore della riconciliazione tra cristiani e musulmani. Durante le fasi più acute della guerra aveva accolto per diversi anni, nella sua parrocchia vicinissima al Km5, migliaia di profughi provenienti dai quartieri vicini. L’abbé Albert, inoltre, era a tutti noto per il suo grande amore per il sango, la lingua nazionale del Centrafrica, non particolarmente ricca di vocaboli. L’abbè Albert riusciva a tradurre ogni parola (senza usare il francese), con soluzioni geniali o giri di parole divertenti. Una volta, mentre eravamo in macchina insieme, tradusse pure il mio nome, decretando che mi si doveva chiamare Bwa (che in sango significa sacerdote) Federiki.
In un’intervista l’abbé Albert aveva detto che solo Dio può ormai salvare il Centrafrica. Non aveva tutti i torti. A salvare il Centrafrica ci hanno provato, e ci stanno ancora provando, in tanti: l’esercito nazionale, le truppe dell’Unione Africana, la missione francese (che ha comunque il grande merito di aver impedito che il conflitto diventasse un massacro), i soldati dell’Unione Europea, poi la Minusca, la grande missione dell’ONU (che, pur con tutti suoi limiti, resta al momento l’unica soluzione possibile) e ora sono all’orizzonte anche i russi. Ci ha provato pure Papa Francesco che, con la sua visita nel novembre del 2015, era riuscito a regalare una tregua sufficiente per eleggere democraticamente un nuovo presidente. Con il tempo, purtroppo, l’effetto di quella visita è come svanito e l’occasione di voltare pagina è stata per l’ennesima volta sprecata. Gli scontri si sono moltiplicati su tutta l’estensione del paese e quella pace, che avevamo appena accarezzato, sembra quasi più lontana di prima.
Perché è iniziata questa guerra? E perché sembra impossibile arrestarla? Le guerre sono sempre complesse, iniziano per tanti motivi ed evolvono nel tempo. Anche per chi abita qui da anni, è difficile spiegare le vere ragioni del conflitto e, ancor di più, suggerire la soluzione giusta per spegnere l’incendio evitando che si propaghi ora qui, ora là – quasi come i fuochi della savana – lasciando solo morti, distruzione, paura e scoraggiamento. Attualmente i due campi avversari non sono neppure così nettamente distinguibili, come nei primi anni della guerra, tra Seleka (la coalizione delle milizie a maggioranza musulmana, tra cui anche mercenari di altri paesi) e gli anti-balaka (le milizie di autodifesa, sorte a difesa della popolazione del paese, a maggioranza cristiana, ma dalle quali i vescovi hanno sempre preso le distanze). La Seleka è ufficialmente sciolta. Ogni gruppo di ribelli ha il suo capo, i suoi obiettivi e la sua zona d’influenza. Non c’è più quella guerra casa per casa, quartiere per quartiere che Bangui aveva conosciuto nel 2013 e nel 2014. Ora si tratta di battaglie che hanno per protagonisti gruppi di autodifesa, i soldati dell’Onu o le forze dell’ordine. Tre quarti del paese sono come fuori dal controllo dell’autorità dello Stato.
La guerra in Centrafrica, iniziata di fatto già nel 2012, non è uno scontro confessionale o etnico. Si tratta piuttosto dell’ennesimo conflitto per la conquista del potere e per lo sfruttamento delle ricchezze di cui abbonda il sottosuolo. Purtroppo, l’elemento confessionale si è inserito violentemente, avvelenando quella convivenza tra cristiani e musulmani che faceva del Centrafrica – in un tempo ormai lontano – un esempio di coabitazione pacifica. Seko e Fatima confermano che per ritornare alla situazione precedente la strada è ancora lunga.
Durante l’omelia, in occasione dei funerali del sacerdote ucciso e di alcune delle vittime, il Cardinale di Bangui ha messo tutti con le spalle al muro denunciando l’inerzia del governo, la lentezza dell’Onu e il rischio che i cristiani cedano allo sconforto o, peggio ancora, alla logica della violenza e della vendetta. C’è un nemico insidioso che sta distruggendo il Centrafrica. E questo nemico, ha scandito il Cardinale, è il diavolo. Solo le armi della fede possono vincerlo.
Bangui, ferita al cuore della sua fede, non è arrabbiata con Dio. È arrabbiata piuttosto con quegli uomini che non vogliono la pace e, quasi obbedendo a un’agenda nascosta, si ostinano a bloccare il paese, come se fosse ineluttabilmente condannato alla miseria e alla guerra. Bangui e tutto il Centrafrica sono in cerca di eroi – tra i governanti, i soldati, i giovani – che si alzino come un solo uomo e dicano no alla guerra e sì alla pace.
Bwa Federiki
* P. Federico Trinchero, carmelitano scalzo del monastero Nostra Signora del Carmelo a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana
Crediti foto: © Anna Moccia