La testimonianza di Suor Stefania, missionaria della Consolata, che dalla lontana Bolivia ci racconta il suo cammino a sostegno della comunità quechua di Vilacaya
Siamo agli inizi del mese missionario, e fa parte, e anche fa piacere, poter parlare di missione. Mi piace scrivere le cose belle, che danno senso alla mia vita, alle nostre vite, e la missione è il regalo più grande che Dio poteva darmi… Il Beato Giuseppe Allamano, fondatore degli Istituti Missionari della Consolata, soleva ripetere che la vocazione missionaria è la grazia più grande che Dio può dare, e bisognerebbe stare in ginocchio, per ringraziarlo, tutta una vita. Più passa il tempo, più concordo con lui…
Ma lasciate che mi presenti: sono suor Stefania Raspo, missionaria della Consolata. Ho 41 anni e dal 2013 vivo in Bolivia, nella diocesi di Potosí, dove condivido le gioie e i dolori della vita con la mia gente quechua, nel paese rurale Vilacaya.
Si tratta di una zona di campagna che soffre profondamente il cambio climatico, che qui prende le fattezze della desertificazione: ogni anno le piogge diminuiscono, le gelate e grandinate improvvise mettono a repentaglio la sopravvivenza delle famiglie, che ad un certo punto sono costrette a migrare verso le città o verso l’Argentina, in cerca di un futuro migliore.
La gente della zona ha mantenuto le tradizioni ancestrali, e il governo Evo Morales ha garantito nella Costituzione del 2009 l’autonomia delle nazioni indigene, che possono autogovernarsi, sempre però nel rispetto dell’unità nazionale. Ed è così che Vilacaya è un territorio ayllu, un’antica divisione territoriale e amministrativa che raccoglie varie comunità, le quali sono condotte da autorità originarie. Nel nostro servizio missionario siamo sempre in comunicazione e collaborazione con le autorità tradizionali, che convocano le persone, promuovono progetti ed iniziative, in una partnership feconda per il bene della comunità.
La mia comunità è sommamente internazionale: siamo quattro suore di tre continenti e quattro nazionalità: una colombiana, Maria Elena, una argentina, Marisa, una keniana, Mercy e una italiana, che sarei io, Stefania. Siamo così abituate alla convivenza internazionale che quasi non ce ne accorgiamo, ma sappiamo di essere un segno positivo, in un mondo in cui il diverso fa sempre più paura. La sfida più grande è quella di avere sempre il cuore aperto per accogliere l’altro: sia la mia sorella di religione, sia il vecchietto che viene a vendere le uova, la donna con il suo bimbo avvolto nell’aguayo, i bambini che vengono a qualsiasi ora, anche solo per ricevere un sorriso e una carezza. Apertura a una cultura antica e ricca, alle volte così distante dalla nostra, ma che ha tanto da insegnare. Ogni volta che penso al fatto che il mio popolo quechua ha sofferto oppressione e disprezzo per cinque secoli, ma continua ben radicato nella sua identità, mi stupisco e mi inchino davanti a tanta forza: una forza che fa loro sopportare le avversità, una resilienza li rende duri e resistenti come le pietre che ci circondano.
Forse non ho parlato molto della nostra missione in Vilacaya, ma così succede alle mamme, che parlano sempre dei loro figli con amore e orgoglio, e poco di sè stesse…
Se volete seguirci nelle nostre avventure missionarie, visitateci qui: http://missioneintuttiisensi.webconsolata.net
Suor Stefania Raspo