La testimonianza di Maria Pia Dal Zovo, missionaria secolare comboniana
Quest’anno ho avuto la possibilità di trascorrere un mese in Ecuador, il Paese che mi aveva accolto diversi anni fa e dove ho trascorso un bel po’ di anni della mia vita. Il ritorno era motivato da impegni di lavoro, e in effetti la maggior parte del tempo l’ho trascorso a Quito, la capitale, in un lavoro di equipe con altre missionarie secolari comboniane.
Per alcuni giorni però ho avuto la possibilità di ritornare a Riobamba, la città dove avevo vissuto e dove mi ero inserita, prima collaborando in un progetto di educazione alimentare per i bambini della scuola, e successivamente in un progetto educativo per le popolazioni indigene.
Un venerdì sera sono partita da Quito con un pullman di linea per andare a Riobamba, tenendo conto delle cinque o sei ore di viaggio, per via del traffico o altri imprevisti. La mia idea di approfittare del viaggio per osservare e contemplare il paesaggio della Sierra ecuadoriana, come sempre facevo nel passato, è svanita subito perché essendo partita troppo tardi, per quanto cercassi di scrutare al di là del finestrino, vedevo solo il buio. Niente da fare… ho scambiato qualche parola di circostanza con il vicino di posto vestito con poncho e sombrero – abbigliamento tipico delle popolazioni indigene della Sierra ecuadoriana – e poi non ho potuto fare altro che mettermi tranquilla, lasciando che i pensieri e i ricordi affiorassero alla mia mente.
Il primo pensiero è venuto insieme a un ricordo dei “primi tempi”, quando da poco ero arrivata a Riobamba: stavo camminando con il compañero di lavoro Juan per andare da una comunità indigena a circa 4.000 metri di altitudine. Era una delle prime uscite, la salita era ripida ed io che di certo non ero abituata a camminare ad alta quota facevo fatica. Ma anche Juan, pur essendo abituato, sentiva la fatica, e a un certo punto mi rivolse la domanda: “Credi anche tu che dopo che saremo morti la nostra anima dovrà ripercorrere i passi che abbiamo percorso in questa vita?” Devo averlo guardato un po’ perplessa perché subito si è affrettato a precisare: “Nella nostra cultura indigena noi crediamo che la nostra anima ripercorrerà i passi che abbiamo fatto in vita”. E ancora: “Certo che le nostre anime ne dovranno percorrere di passi…”. Questa constatazione mi ha accompagnato nei numerosi altri passi (a piedi, con il fuoristrada, con i pullman…) che ho percorso per le strade dell’Ecuador, ed ora riemergeva in me con il pensiero: “Cosa vado a fare a Riobamba?” Certo andavo soprattutto per rivedere le persone, i posti, ma andavo anche per ripercorrere, almeno per un po’… i passi che avevo percorso, senza aspettare di essere “nell’altra vita”. Per quale motivo?
Un altro pensiero si è fatto presente: ho pensato a S. Daniele Comboni e ai suoi viaggi missionari, soprattutto al suo viaggio di ritorno a Kartoum, dopo la nomina a Provicario Apostolico dell’Africa Centrale, dove aveva presentato la sua famosa omelia con un significato particolare, e tra le tante cose aveva anche detto: “Ed oggi finalmente ricupero il mio cuore ritornando fra voi…”.
Senza aver la pretesa di paragonarmi a Comboni (ci mancherebbe!), ho pensato che forse anch’io ritornavo a Riobamba per ripercorrere i passi e… per recuperare il mio cuore! Il mio cuore (o almeno una buona parte di esso) era rimasto a Riobamba con la gente con cui avevo condiviso la vita, dove mi ero impegnata insieme ad altri per migliorare le condizioni di vita, soprattutto attraverso un’educazione di qualità, che tenesse conto della saggezza e dei valori della cultura indigena relazionati al mondo di oggi.
I tre giorni trascorsi a Riobamba sono stati molto intensi: ho rivisto persone conosciute e alcuni luoghi a me molto cari, anche se non tutti perché il tempo è stato limitato. Il primo incontro è stato nella sede centrale dell’Unità Educativa Pachayachachik (nome nella lingua locale kichwa, che vuol dire “sapienza dell’universo”), un progetto educativo pensato e realizzato espressamente per le comunità indigene che avevano più difficoltà ad accedere all’educazione istituzionalizzata. È venuto spontaneo rivivere il cammino di vita che si era condiviso: i viaggi avventurosi attraverso le strade impervie per arrivare alle comunità, le condivisioni con la gente sulla Parola di Dio relazionata alla vita, lo sforzo e l’impegno per proporre un’educazione di qualità che sapesse valorizzare tutta la saggezza e le conoscenze proprie delle popolazioni indigene. Ho trovato il progetto molto cambiato in quanto si è dovuto adeguare alle esigenze dell’attuale piano educativo nazionale, ma ho trovato invariato da parte dei compañeros indigeni la voglia e il desiderio di portare avanti un progetto in cui credono e si riconoscono, a beneficio delle popolazioni indigene.
Sono stati significativi alcuni incontri personali, tra tutti ricordo l’incontro con Achik Toa – nome storico di una principessa di una etnia indigena – di cui sono madrina di Cresima. L’avevo lasciata che era giovanissima e con il desiderio di studiare, per questo aveva usufruito di una borsa di studio ed era andata a Cuba. Ora l’ho rivista già medico, inserita in un progetto governativo sperimentale a favore delle popolazioni che vivono nell’area rurale. Mi ha fatto piacere sentire che anche lei è sempre in cammino per raggiungere le comunità più isolate e per fare un lavoro di prevenzione e cura per le persone che hanno più difficoltà a raggiungere i “centri di salute” istituzionali. E poi tanti altri incontri che mi hanno confermato che la vita continua. In alcuni casi con evidenti passi in avanti: le opere pubbliche, le infrastrutture, un benessere più evidente per un largo strato della popolazione. In altri casi si retrocede: i problemi economici che continuano per molti, le difficoltà di accettare e valorizzare le diversità anche nell’ambito culturale, per non parlare della difficoltà, da parte di certi ecuadoriani, di accettare e accogliere immigrati che provengono da Paesi più in difficoltà, come il Venezuela.
Alla fine dei tre giorni ho cercato di fare il viaggio di ritorno a Quito in pieno giorno in modo da poter vedere il paesaggio e soprattutto il Chimborazo, un ghiacciaio perenne che dà il nome alla provincia di cui Riobamba è capoluogo. Anche questa volta le mie aspettative sono andate deluse: il viaggio è avvenuto sotto una pioggia torrenziale e la differenza fra temperatura esterna e interna ha fatto in modo che i finestrini del pullman fossero tutti appannati.
Questo inconveniente mi ha permesso di riprendere i miei pensieri: a Riobamba ho ritrovato un pezzo del mio cuore. Chissà se avrò modo di ritornare ancora qui, per ora la convinzione che mi sono portata via è che il mio cuore è e sarà in ogni parte del mondo dove sono o sarò chiamata a vivere la mia vocazione.
Maria Pia Dal Zovo