Mani per la vita: dalla missione in Africa una storia di riscatto al femminile

di Sr. Maria Rosa Venturelli*

Ho conosciuto un giorno Thérèse, una giovane donna della nostra missione in Congo. Aveva accettato di entrare a far parte della nostra scuola per il magistero della donna. Aveva 23 anni. Non era mai andata a scuola. E desiderava tanto studiare, come si faceva nella grande città.

La nostra mini scuola di tre anni di studio, chiamata da noi benevolmente “Magistero per la Donna”, era per la scolarizzazione di ragazze che non avevano mai potuto frequentare la scuola pubblica. Ogni settimana in mattinata c’erano dei corsi di teoria e dei corsi di pratica nel pomeriggio. La teoria erano lezioni di alfabetizzazione, contabilità, psicologia, maternità e figli, cura della casa e del creato e altri ancora. La parte pratica era di insegnare a lavorare con le MANI. Ricamo, cucito, taglio, confezione di abiti con una macchina da cucire a manovella. A quel tempo ne avevamo una sola.

Siamo in un contesto Azande, una etnia guerriera e orgogliosa. Il primo anno di scuola che abbiamo iniziato, c’erano poche ragazze. Tra queste Thérèse. Abbiamo dovuto sostenere discorsi e discussioni a lungo con i genitori, perché non volevano che le loro ragazze analfabete venissero a scuola da noi alla missione. Non era importante per una ragazza studiare. Se studiava cominciava a capire che aveva dei diritti e dei doveri e li avrebbe usati per la sua libertà personale. Questa libertà al nucleo familiare tradizionale non andava bene. Era troppo. Il gruppo dei genitori fece resistenza, diverse ragazze dovettero rientrare in famiglia a metà corso. Solo 5 su 20 ragazze, riuscirono a terminare il primo anno di formazione scolastica.

Al termine dell’anno di scuola, facemmo una mostra aperta al pubblico, con le opere confezionate dalle 5 ragazze, ancora molto artigianali e imperfette. Alcuni genitori vennero a visitarla, più per curiosità che per apprezzamento dei nostri sforzi e dell’impegno delle loro figlie. Ma la scuola doveva continuare. Noi iniziammo lo stesso il secondo anno con 5 studentesse, contemporaneamente aprimmo di nuovo il primo anno.

San Daniele Comboni diceva che “senza la donna e senza la donna consacrata non si può fare una missione solida”. Noi eravamo sue figlie. Decisi di continuare la scuola, che era a me affidata.

Le 5 ragazze continuarono fino al termine del terzo anno, concludendo così per la prima volta il ciclo di studi. Al termine il rilascio del diploma di taglio e cucito. Fu un evento questo proprio memorabile. I genitori e i familiari erano entusiasti delle opere di cucito che uscivano dalle mani delle loro figlie. Abiti per donne, uomini, bambini, adolescenti. Capi di biancheria per la casa e per la persona.

La nostra mostra aperta al pubblico, dopo il terzo anno della scuola, fu un trionfo. I genitori deposero le armi e le ragazze poterono venire a scuola liberamente, se lo desideravano. Alcuni genitori mi dissero quel giorno: “Ora abbiamo capito, le nostre ragazze devono venire a scuola da voi. Voi ne fate delle donne, delle mamme, delle persone mature, sicure di sé e libere. Questo abbiamo visto e questo approviamo di tutto cuore”.

Dall’Italia, grazie ad amici amanti della nostra missione, ci giunse materiale prezioso: filo da ricamo inviatoci da Mirella, che aveva un negozio di profumeria e merceria; filo da cucito inviatoci da un grande maglificio; scampoli di tessuti colorati, raccolti dalla mia mamma tra conoscenti, negozi, magazzini, sartorie; poi una decina di macchine da cucire a manovella.

Questa scuola fu un’intuizione feconda e vitale. Thérèse con il suo diploma e la sua macchinetta da cucire, iniziò a vivere in modo indipendente dalla famiglia, guadagnava quanto necessario per vivere dignitosamente. Ne era molo orgogliosa.

Un giorno Gita – un ragazzo il cui nome significa “zappa”, perché era nato mentre il papà vangava il suo campo prima della semina stagionale – Gita le chiese di sposarlo. A lei piaceva quel ragazzo buono e semplice. Disse il suo sì. Si sposarono nella nostra parrocchia con p. Damian, il parroco, a presiedere l’evento religioso. Ma dopo due anni i bambini non arrivavano, la famiglia di Gita pensò che la colpa era della moglie che era sterile. Lui doveva prendere una seconda moglie per dare discendenza alla famiglia di origine. Questa è una tradizione presso gli Azande non cristiani.

Furono mesi molto difficili. I due sposi si trovarono in mezzo alle discussioni della famiglia patriarcale. Gita a un certo momento sembrò soccombere alle richieste pressanti della sua famiglia. Thérèse fu irremovibile. Gita doveva scegliere: o lei o la famiglia. La sua libertà di scelta era decisa. Non avrebbe mai accettato una seconda moglie per suo marito. Alla fine Gita comprese che la sua donna, grazie alla scuola e allo studio, era una donna di volontà, di potere, istruita, consapevole del suo essere donna e donna libera. Gita continuò a vivere con Thérèse. La sua famiglia lo rifiutò. Dopo due anni nacque un bel maschietto, ebbero in tutto 5 figli, sani e belli. Grazie a Dio.

Gita e Thérèse oggi sono nonni felici. Thérèse di tanto in tanto ancora mi scrive.

* Sr. Maria Rosa Venturelli, missionaria comboniana. Ha lavorato per 12 anni in Zaire (attuale Repubblica Democratica del Congo).

Foto di jpaulxtra da Pixabay

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