di Anna Moccia
Sono tante le congregazioni missionarie che hanno perso fratelli e sorelle a causa dell’epidemia. Una delle realtà più colpite è stata la casa dei saveriani di Parma dove, da fine febbraio al 1° aprile, sono morti ben 18 missionari, 12 i decessi a causa del coronavirus. La missione in fondo è anche questo: condividere la sorte di un popolo, essere parte della sua storia, nel bene e nel male.
«Al momento la situazione sembra essere sotto controllo – ci dice padre Gigi Signori, 62 anni, vice rettore nella grande comunità saveriana della casa madre -. Come da prassi siamo stati sottoposti ai tamponi e sono negativi però abbiamo vissuto momenti di grande sconforto. In un mese abbiamo perso circa un terzo della nostra comunità. Uno dei confratelli scomparsi era qui solo di passaggio per sottoporsi ad alcune cure e presto sarebbe rientrato in Congo, nella diocesi dove aveva avviato delle costruzioni. Poi abbiamo perso tre missionari in altre due comunità italiane, uno a Desio e due ad Alzano Lombardo, in provincia di Bergamo, tra i comuni della Bergamasca duramente colpiti dall’epidemia».
La casa madre di Parma era ed è il fulcro della famiglia religiosa: accoglie i Saveriani che tornano dalle missioni; assiste i missionari più anziani e ammalati, tornati in patria dopo aver speso l’intera esistenza a servizio di popoli in terre lontane; collabora con la diocesi di Parma nell’esercizio del ministero; è sede dello studentato teologico dei saveriani (attualmente ci sono 15 studenti); collabora con il centro missionario e con Ciac Onlus, associazione che si occupa dell’accoglienza dei migranti e che ha come sede proprio una parte dell’istituto.
«In questo tempo vedere la solidarietà che tante persone ci hanno dimostrato – afferma padre Gigi – è segno della provvidenza di Dio e ci aiuta a guardare avanti con coraggio. Forse ci fa comprendere ancora di più l’importanza dei piccoli gesti, capire che anche a 80 anni si può ricominciare. Magari alla nostra età non avremo più la forza per realizzare grandi opere ma si può continuare a fare missione restando accanto alla gente, prendendosi cura dei fratelli ammalati, dando una mano concreta a quelle che sono le “nuove povertà”, così come ai migranti che vengono accolti da Ciac onlus. Chi è missionario è chiamato a offrire sempre un’appassionata testimonianza di vita, fino alla fine».
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