Migliaia di chilometri tra barriere e filo spinato. Simone Garbero racconta il lungo viaggio dei migranti sulla Rotta balcanica, vissuto in prima persona insieme ai missionari Scalabriniani
di Simone Garbero
Alì e Sulayman sono accovacciati sull’erba nel piccolo parco davanti alla stazione di Trieste. I volti stanchi di chi ha un lungo viaggio alle spalle, le scarpe logore raccontano molti chilometri a piedi: i sorrisi di chi ce l’ha fatta. Ci sediamo accanto a loro, barattiamo qualche saluto in un inglese incerto e ci offrono una coscia di pollo fredda da una vaschetta del supermercato.
Con i due giovani pakistani ripercorriamo la strada che abbiamo alle spalle: sono sorpresi di sentire che conosciamo i nomi dei luoghi che hanno attraversato e ancora di più di sapere che anche noi, un gruppo di giovani italiani, arriviamo dal loro stesso percorso.
Eravamo partiti, noi, tre settimane prima dalla Turchia: un gruppo di nove giovani con il progetto “Umanità InInterRotta” di Via Scalabrini 3, l’Ufficio di Pastorale Giovanile dei Missionari Scalabriniani. A inizio settembre di un anno fa siamo partiti da Gaziantep, grande città turca al confine con la Siria, per incontrare chi vive qui in fuga dal fallimento dei propri Stati.
Abbiamo bevuto tè zuccherati con Hussein, Amr, Nur, Fadi, Abu Ahmad e la sua famiglia: tanti volti e tante storie diverse. In comune la fuga dalle bombe in Siria e l’attesa di un ritorno a casa o di una nuova vita in Europa. A Kirsheir, nel cuore dell’Anatolia, abbiamo incontrato un gruppo di famiglie irachene, fuggite dalla persecuzione dell’ISIS. Vivono lì accompagnati da una piccola comunità di suore comboniane, in un Paese in cui non hanno possibilità di radicarsi. “Quando inizierà il nostro futuro?” Sono nella immobilità di chi non sa dove andare e non può neanche lavorare legalmente nel Paese dove si è trovato a vivere.
A poco servono gli accordi presi tra gli Stati europei e la Turchia per fermare il flusso di persone che vogliono allontanarsi da un Paese inospitale: nonostante tutto ogni notte piccoli gommoni partono dalle coste Turche per raggiungere le piccole isole Greche molto più vicine alla Turchia che alla Grecia, destinazione di turisti da tutta Europa per le loro spiagge meravigliose. Per chi arriva di notte con i gommoni però sono prigioni perfette.
Sull’isola di Samos: dopo un acquazzone rimbombavano i colpi di un giovane richiedente asilo che inchiodava le travi di una nuova baracca. Nel campo governativo non c’è posto per tutti, così è cresciuto un villaggio abusivo di baracche, in condizioni pessime. Ci sono più di 5000 persone. I trasferimenti ufficiali dei richiedenti asilo sulla terraferma sono lenti e da un’isola non si può scappare.
Quando si riesce in qualche modo ad arrivare sulla terraferma, legalmente o illegalmente, la strada è spianata verso i Balcani: la rotta risale la Grecia e attraversa la Macedonia del Nord e la Serbia seguendo le piste collaudate da decenni del traffico di armi e stupefacenti. Si può entrare facilmente in Bosnia attraverso i boschi e i fiumi, problema però è uscirne. L’obiettivo di chi passa di qui è raggiungere la Croazia, la Slovenia e poi l’Italia, ma la frontiera croata è il confine dell’Unione Europea. L’Europa, come è noto, vuole tenere le porte chiuse, così la Croazia ha il compito di non fare passare nessuno. Migliaia di giovani attendono nei cinque campi allestiti vicino al confine prima di tentare di attraversare il confine trai boschi.
Attraversare la frontiera croata è il cuore del “game” e in effetti sembra un po’di giocare a “Guardie e ladri”: se la polizia croata trova i migranti, la loro strada sarà sbarrata. “Croatia police very bad, very bad” è il commento di tutti i “giocatori” di questo strano gioco tentato due, tre, trenta volte. Ogni volta che la polizia croata li trova li rispedisce in Bosnia dopo avere sequestrato loro i cellulari, i soldi, gli zaini, i sacchi a pelo, perfino le scarpe alcune volte.
La meta, quando ce la si fa a passare inosservati è arrivare a Trieste, dopo aver superato la Slovenia: ogni giorno arrivano in città circa 50 persone, lontane dai riflettori. Trieste è la porta dell’Europa per molti come Alì e Sulayman con il loro pollo fritto accovacciati sotto quell’albero. Ma il viaggio non è certo finito: molti non si vogliono fermare in Italia e proseguono ancora di nascosto verso la Francia o la Germania, per tutti c’è poi ancora un lungo viaggio burocratico per ottenere un permesso di soggiorno. Intanto però hanno raggiunto il Paese di latte e miele che avevano sognato per anni: soddisferà le loro aspettative? Saprà l’Europa prendersi cura di queste persone che ha tentato, senza riuscirci, di spingere lontano da sé?