Dominique Corti
Kampala, 21 giugno 2021
Sono finalmente atterrata all’aereoporto di Entebbe dopo più di diciotto mesi lontana dal Lacor.
Proprio nei giorni in cui in Italia intravediamo la luce in fondo al tunnel, l’Uganda è riprecipitata nel buio, nella paura e nello stigma che circonda il virus.
Ieri sera le strade di Kampala erano deserte, surreali. Così diverse da quelle rumorose, affollate e colorate a cui sono abituata.
I titoli dei giornali locali come il Daily Monitor e i telegiornali dell’ugandese NBS TV danno risonanza ad un allarme reale e preoccupante: l’ossigeno e i dispositivi di protezione scarseggiano in tutto il Paese, mettendo pesantemente a rischio anche la salute degli operatori sanitari.
Sono almeno 2.300 i professionisti contagiati dal COVID dall’inizio della pandemia, e, secondo fonti del Ministero della Salute, oltre 60 di loro sono morti.
Ad oggi, il tasso di positività è del 15% (ieri, in Italia, era dello 0,6%). Si teme che finiscano presto i posti letto negli ospedali: secondo uno studio pubblicato di recente sul Journal of Critical Care prima della pandemia erano solo 55 i posti di terapia intensiva in Uganda. Qualcuno è stato aggiunto, ma non abbastanza.
L’ossigeno scarseggia ovunque e i vaccini sono insufficienti. Solo 812 mila le persone vaccinate su una popolazione che conta 44 milioni di abitanti.
Dopo le prime dosi somministrate agli operatori sanitari tra marzo e maggio, il Governo ha dichiarato che ne sono arrivate 175 mila donate dalla Francia e si pensa ne arrivino altre ad inizio agosto. Sempre troppo poche.
Al Lacor 37 operatori non hanno potuto ricevere la seconda dose perché le scorte erano esaurite.
A questo si aggiunga la denuncia di tanti media locali secondo cui la maggior parte degli ospedali e delle cliniche private del Paese fa pagare ad un paziente Covid da 2 a 5 milioni di scellini al giorno. Che significa da 500 a più di mille Euro: cifre insostenibili in un Paese dove metà della popolazione vive in condizioni di estrema povertà.
Al Lacor rimane lo spirito di servizio e gratuità che ha caratterizzato l’ospedale in questi sessant’anni e il paziente contribuisce solo se può permetterselo e con cifre simboliche. Tanto che stanno arrivando richieste da malati Covid da tutt’Uganda che vogliono essere ricoverati al Lacor. Ma anche il nostro ospedale è molto in affanno.
Tra marzo e aprile dello scorso anno, amici e colleghi ugandesi ci avevano inviato tante testimonianze di affetto e solidarietà. Ora è il nostro turno.
È per questo che sono qui oggi e nelle prossime settimane. Come erano rimasti i miei genitori durante la guerra e il mio papà durante l’Ebola.
Dominique Atim Corti, medico, presidente della Fondazione Corti, è nata al Lacor Hospital di Gulu, in Nord Uganda, l’ospedale fondato sessant’anni fa dai suoi genitori, i medici Piero Corti e Lucille Teasdale. Da 25 anni, insieme ai collaboratori della Fondazione (fondazionecorti.it), si dedica a raccogliere fondi e assicurare assistenza perché il Lacor possa continuare ad offrire le migliori cure possibili alla popolazione più fragile di quest’angolo d’Africa.