«Buongiorno, il mio nome è Meskerem e vengo dall’inferno della Libia». Sono le parole, rotte dal pianto, con cui una giovane rifugiata eritrea, arrivata in Italia grazie ai Corridoi umanitari, si è presentata a Papa Francesco questa mattina, sabato 18 marzo. Insieme a lei altre famiglie di rifugiati sono state ricevute in udienza dal Santo Padre, che ha potuto ascoltare il loro grido di dolore e di speranza per il futuro.
Pubblichiamo la testimonianza consegnata al Santo Padre nel corso dell’Udienza.
Mi chiamo Meskerem, vengo dall’Eritrea. Sono uscita da ragazza dal mio paese, avevo 15 anni con mia sorella Masa che ne aveva 23. Io non sono mai andata a scuola. Mia sorella doveva andare via perché era stata chiamata a fare il servizio militare. Che in Eritrea non si sa quando finisce. Mia madre con il cuore spezzato ci ha mandato via per salvare la nostra vita, ci ha dato tutti i soldi di casa e il suo oro.
Abbiamo camminato tanto di notte fino al Sudan. Dal qui mia sorella ha organizzato il viaggio verso la Libia. Abbiamo attraversato il Sahara con un pick-up, eravamo tanti, uomini e donne. Se qualcuno cadeva giù, il pick-up non si fermava. Alcuni venivano rapiti già in questo percorso. Prima di entrare in Libia ci hanno messo in un capannone pieno di gente, c’era un odore insopportabile. Eravamo prigioniere. Mia sorella ha iniziato a contrattare per uscire, loro hanno visto che aveva l’oro e lo hanno preso.
Alla fine siamo riuscite ad uscire e abbiamo iniziato a lavorare un po’. In quel periodo riuscivamo a parlare con nostra madre ed io ero felice. Un giorno mia sorella non è più tornata a casa e da allora non so più niente di lei. L’ho cercata ovunque, senza successo. Dalla signora vivevo come una schiava e un giorno sono scappata e mi sono unita ad altri eritrei.
Mi hanno portato in un capannone pieno di gente “Ghem ghem bari” che significa Prima del mare. Quelli che pagavano partivano a gruppi. Stando lì ho conosciuto Suleiman, il mio futuro marito. Senza pagare non si parte. I capi del capannone mi hanno portato in una casa per guadagnare i soldi del viaggio. Sono stata lì 6 mesi e ho subito violenze di tutti i tipi e “mi hanno mancato di rispetto”. Non mi reggevo più in piedi, mi hanno riportata nel capannone per partire.
Lì ho incontrato di nuovo Suleiman lui ha avuto pietà di me e ha iniziato a proteggermi. Una volta ci siamo imbarcati siamo stati undici ore nel mare, è arrivata una barca della guardia costiera libica e ci ha riportato indietro. Siamo stati di nuovo imprigionati a Bem Kasher a Tripoli. Siamo stati lì undici mesi. Aspettavamo che Unhcr venisse a registrarci. Io e Suleiman ci siamo sposati nel campo e nel campo è nata mia figlia.
Un giorno mi è arrivata la telefonata dall’Italia, e mi dicevano che ero stata inserita nei Corridoi Umanitari. Alla prima telefonata non ci ho creduto. Poi alla seconda hanno iniziato a chiedermi i documenti, il nome di mio marito e di mia figlia. In quel momento ho sentito come un angelo che mi prendeva dalla terra e mi portava in volo oltre il mare fuori dall’inferno. Non riuscivo più a dormire, pensavo davvero partiremo? Mi sembrava impossibile. Poi ci ha chiamato anche l’Unhcr e allora mi sembrava più vero. Ero molto felice, ma anche sull’aereo avevo paura, pensavo che mi avrebbero fatto scendere prima di partire.
Il mio inferno in Libia è terminato dopo dieci anni. Mi piacerebbe tanto che anche quelli che sono rimasti indietro provassero la mia gioia. Ora sono incinta aspetto il mio secondo figlio, siamo molto felici perché mia figlia vive qui, va a scuola, lei non vivrà quello che io ho vissuto. Ora sono felicemente incinta. I miei ringraziamenti non saranno mai sufficienti, il mio cuore è pieno di gioia.
Foto: 2023 Comunità di Sant’Egidio