Ricordando “La stola e il grembiule” di don Tonino Bello, meditazione di don Pierluigi Nicolardi* sul significato del Triduo Pasquale
La cena del Signore apre le celebrazioni del triduo pasquale. Il Vangelo che la liturgia ci propone è l’episodio della lavanda dei piedi che chiude, nel racconto di Giovanni, la cena pasquale di Gesù con i suoi discepoli.
Il contesto nel quale si svolge l’episodio è la settimana che precede la Pasqua ebraica; i discepoli avevano preparato la stanza secondo le indicazioni di Gesù: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo e là dove entrerà dite al padrone di casa: Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, perché io vi possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli? Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala con i tappeti, già pronta; là preparate per noi» (Mc 14,13b-15).
La sala al piano superiore era usata per le grandi occasioni, per le feste importanti della famiglia allargata; la cena pasquale era una di queste occasioni. La stanza, infatti, era già sistemata per la festa. La cena consumata da Gesù, però, non ha solo valore di memoriale della pasqua ebraica; nella tradizione di Israele, infatti, c’era un’altra importante cena che sembra essere simbolicamente richiamata, quella nuziale.
Nella tradizione ebraica lo sposo veniva introdotto solennemente e processionalmente in casa della sposa; qui, seguivano, nella stanza al piano superiore, otto giorni di banchetti con gli amici.
La cena pasquale di Gesù, insieme ai suoi amici che ama “fino alla fine”, assume questo chiaro riferimento nuziale. E tutta la narrazione di Giovanni degli ultimi giorni della vita di Gesù hanno questo riferimento; si pensi alla simbologia dell’agnello e a quanto poi affermerà nell’Apocalisse: «Sono giunte le nozze dell’Agnello, la sua sposa è pronta» (Ap 19,7).
Il punto centrale dell’episodio è – chiaramente – la lavanda dei piedi. Che valore ha questo gesto?
- Gesto di servizio. Gesù dà compimento alla kenosi, a quell’amore fino alla fine che vede Gesù abbassarsi fino a lavare i piedi dei suoi discepoli. Egli depone la sua divinità per rivestirsi dell’umanità, tutta rappresentata in quel lembo di stoffa che è l’asciugatoio. Ma questo gesto è altamente rivelatore: è proprio nella umiliazione e nell’abbassamento che si manifesta la gloria del Figlio di Dio. Nella lavanda dei piedi c’è già l’inizio della glorificazione.
- Gesto di consacrazione. Il gesto di Gesù ha radice nell’Antico Testamento; il fondamento è in Es 29,4 dove sono riportate le istruzioni per consacrare i sacerdoti. Dice il testo: «Farai avvicinare Aronne e i suoi figli all’ingresso della tenda del convegno e li farai lavare con acqua». E ancora in Es 30,18-21: «Farai una conca di rame con il piedestallo di rame, per le abluzioni; la collocherai tra la tenda del convegno e l’altare e vi metterai acqua. Aronne e i suoi figli vi attingeranno per lavarsi le mani e i piedi. Quando entreranno nella tenda del convegno, faranno una abluzione con l’acqua, perché non muoiano; così quando si avvicineranno all’altare per officiare, per bruciare un’offerta da consumare con il fuoco in onore del Signore, si laveranno le mani e i piedi e non moriranno. È una prescrizione rituale perenne per lui e per i suoi discendenti, in tutte le loro generazioni». Il gesto di Gesù non esprime solo la kenosi del Verbo, il gesto del Figlio di Dio che si abbassa fino a servire l’uomo; c’è un altro significato che ha a che fare con la consacrazione dei sacerdoti. Gesù in quella cena istituisce il sacerdozio non solo nel gesto dello spezzare il pane con il comando «Fate questo in memoria di me», ma anche con il lavare i piedi dei dodici, gli apostoli, coloro che sono chiamati a rinnovare poi quel sacrificio dopo Gesù.
Nel celebre testo «Stola e grembiule», don Tonino Bello scrive:
«Chi sa che non sia il caso di completare il guardaroba delle nostre sacrestie con l’aggiunta di un grembiule tra le dalmatiche di raso e le pianete di camice d’oro, tra i veli omerali di broccato e le stole a lamine d’argento! Un grembiule ritagliato dalla stola. La cosa più importante, comunque, non è introdurre il “grembiule” nell’armadio dei “paramenti sacri”, ma comprendere che la stola e il grembiule sono quasi il diritto e il rovescio di un unico simbolo sacerdotale. Anzi, meglio ancora, sono come l’altezza e la larghezza di un unico panno di servizio; il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo.
La stola senza il grembiule resterebbe semplicemente calligrafica. Il grembiule senza la stola sarebbe fatalmente sterile. C’è, nel Vangelo di Giovanni, una triade di verbi scarni, essenziali, pregnantissimi, che basterebbero da soli a sostenere il peso di tutta la teologia del servizio, e che illustrano la complementarietà della stola e del grembiule. I tre verbi sono: “si alzò da tavola”, “depose le vesti”, “si cinse un asciugatoio”».
In questo testo sembra che don Tonino trovi la sintesi dei due gesti, quello di consacrazione e di servizio: stola e grembiule, «l’altezza e la larghezza di un unico panno di servizio; il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo». Gesù non istituisce una nuova classe sacerdotale legata all’appartenenza ad una tribù, quella levitica; egli istituisce un popolo sacerdotale; quel popolo siamo noi che fanno del servizio a Dio e al prossimo il proprio focus, il cui paramento singolare è una stola/grembiule.
* Riflessione a cura di don Pierluigi Nicolardi, parroco di S. Antonio da Padova in Tricase e Direttore dell’Ufficio diocesano di Pastorale per la Famiglia. Autore di Terra e Missione.
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