Il 3 dicembre si ricorda San Francesco Saverio, gesuita, il più grande missionario dell’epoca moderna in estremo Oriente. Lo raccontiamo nella forma di un’intervista “impossibile”, nel giorno in cui la Chiesa celebra la sua memoria.
di Geraldine Schwarz
“Moltissimi, in questi luoghi, non si fanno ora cristiani solamente perché manca chi li faccia cristiani. Molto spesso mi viene in mente di percorrere le Università d’Europa, specialmente quella di Parigi, e di mettermi a gridare qua e là come un pazzo e scuotere coloro che hanno più scienza che carità con queste parole: Ahimè, quale gran numero di anime, per colpa vostra, viene escluso dal cielo e cacciato all’inferno!
Oh! se costoro, come si occupano di lettere, così si dessero pensiero anche di questo, onde poter rendere conto a Dio della scienza e dei talenti ricevuti!
In verità moltissimi di costoro, turbati da questo pensiero, dandosi alla meditazione delle cose divine, si disporrebbero ad ascoltare quanto il Signore dice al loro cuore, e, messe da parte le loro brame e gli affari umani, si metterebbero totalmente a disposizione della volontà di Dio. Griderebbero certo dal profondo del loro cuore: «Signore, eccomi; che cosa vuoi che io faccia?»
A parlare, in una lettera divenuta ormai famosa e indirizzata all’amico e compagno di Gesù, Ignazio di Loyola, è un giovane trentenne, Francesco Saverio, primo sacerdote europeo a raggiungere l’Oriente nel 1542. Nel corso della sua predicazione intensissima e lunga 10 anni, percorse l’India, l’Indonesia, la Malesia, altre isole del Pacifico e il Giappone e il suo sguardo si spense guardando le sponde della Cina, dove sperava di trovare la chiave per evangelizzare il Giappone, e dove poi continuò la sua opera il gesuita Matteo Ricci.
La sua è una vita breve, 46 anni e poco più, spesa per gli altri, avventurosa e piena di grazia, con 10 anni di missione, tremila miglia di viaggi, 62mila Km percorsi in tre anni e migliaia di battezzati. Un sognatore a servizio di Gesù povero e dell’evangelizzazione missionaria, come lo ricordano gli amici gesuiti. Oggi Francesco Saverio è santo, patrono delle missioni, dell’Oriente cristiano e dell’opera della propagazione della fede.
Lo raccontiamo nella forma di un’intervista “impossibile, nel giorno in cui la Chiesa celebra la sua memoria.
Dove sei nato?
Sono nato il 7 aprile 1507 a Javier, in Spagna. Sono basco. Sono l’ultimo di sei figli, la mia famiglia viveva nei pressi di un castello a Javier. Eravamo nobili di origine e benestanti ma tutti i nostri beni sono stati confiscati da Ferdinando II il Cattolico dopo la vittoria sugli autonomisti navarrini. Abbiamo perso tutto e mio padre è si è ammalato ed è morto per il dolore. Appena ho potuto, ho salutato la mia famiglia, che non avrei più rivisto, e a 18 anni sono andato a Parigi a studiare Lettere prima e poi Filosofia alla Sorbona.
Quali sono stati i momenti importanti della tua formazione?
A Parigi, alla Sorbona, dopo tre anni di studio con buoni risultati, sono diventato Maestro. Davo lezioni agli studenti e questo mi permetteva di mantenermi e di continuare a studiare. Per ridurre le spese, dividevo la stanza con altri due studenti, Pietro Favre e un altro basco come me, uno studente fuori corso più grande di noi per il quale non avevo grande simpatia: Ignazio di Loyola. Lui era già grande di età e non aveva i miei stessi interessi. Io ero un sognatore, intellettuale e studioso, ero interessato alla scienza, alla filosofia allo sport che rendeva bello e sano il mio fisico; Ignazio, invece, oltre ad essere fuoricorso, proponeva a tutti questi esercizi spirituali per avvicinarsi a Dio e a un discernimento sulla propria vocazione, che pure riscuotevano successo tra gli studenti. Io ero restìo ma alla fine mi sono lasciato convincere da una domanda tratta dalla Bibbia, che lui mi ripeteva con insistenza e che mi toccò dentro, come una spina nel fianco: A che pro conquistare tutto il mondo se poi perdi la tua anima?
Eravamo in un periodo di grande intensità intellettuale e per la Chiesa era un momento di crisi in cui non trovava risposte. Tra le teorie di Calvino, Lutero ed Erasmo c’erano grandi fermenti. Incalzato da Ignazio, ho deciso di fare un mese di silenzio in preghiera facendomi guidare dalla sua pratica degli esercizi spirituali e di chiedere davanti al crocifisso: Signore Gesù Cristo, cosa vuoi che io faccia? La mia vita è cambiata in quel mese e durante gli esercizi ho capito che volevo ricanalizzare tutta la mia energia fisica e psichica e la mia ambizione a servizio di Gesù povero e per annunciare il Vangelo. L’amicizia con Gesù è la cosa più importante.
Quando hai deciso di consacrarti e perché le missioni? Come è nata la Compagnia di Gesù?
Diventare discepoli di Gesù per noi significava condividere la vita con lui. La povertà con lui, il pane con lui, trovare intimità con lui e poi portare quella intimità anche nei rapporti tra noi e con l’altro. Essere inviato è parte del voler condividere con Lui: Gesù è stato inviato dal Padre ad evangelizzare, a salvarci e, quando ti giochi la vita nell’essere inviato, nella missione, sei la continuazione dell’incarnazione e fai tutt’uno con la missione di Gesù nel mondo. I miei grandi ideali mondani che seguivo prima dei voti sono diventati grandi ideali di salvezza e quello che volevamo fare noi amici di Gesù era salvare quante più anime portandole a Cristo e far conoscere la sua parola a chi non ne aveva accesso.
Con Pietro e Ignazio abbiamo promesso i voti il 15 agosto 1534 nella basilica di Saint Pierre a Montmartre promettendo a Dio Castità, Povertà e Pellegrinaggio a Gerusalemme per convertire i turchi. Non essendo riusciti a partire però, perché quell’anno non partivano navi da Venezia, siamo andati da Papa Paolo III e ci siamo messi a disposizione. Il Papa ci ha fatto una domanda che ci ha fermato per mesi a Roma a pregare e ad interrogarci: tra noi e davanti al Signore: Volete che vi mando da soli o volete rimanere legati tra voi in una comunità o qualcosa del genere? Solo dopo tanto discernimento siamo arrivati alla prima formulazione di una Compagnia di Gesù che, pur nella diversità delle provenienze, voleva rimanere unita nella missione e nella compagine fraterna ed abbiamo costituito un Ordine religioso.
Sei considerato il patrono delle missioni, della propagazione della fede e dell’Oriente cristiano. Perché seconde te?
Perché sono stato il primo sacerdote europeo a partire e ad andare in terre lontane in Oriente con la bolla papale che mi dichiarava nunzio apostolico in tutti i Paesi asiatici. Sono diventato sacerdote nel 1537 e non avevamo ancora nemmeno finito di strutturare gli elementi fondanti della Compagnia di Gesù che Papa Paolo III nel 1540 ha chiesto due di noi da inviare con l’ambasciatore portoghese che partiva verso le Indie. Non dovevo andare io, che ero braccio destro di Ignazio, ma pochi giorni prima della partenza, uno dei due prescelti, padre Bobadilla, si è ammalato e Ignazio ha chiesto a me di partire. Lì ho pronunciato il mio ´Eccomi’ ed è nata la mia vocazione missionaria. Sapevo che non ci saremmo mai più rivisti ma non sapevo che che la nostra fortissima amicizia sarebbe diventata epistolare e che il massimo della lontananza fisica che ci divideva avrebbe portato al massimo dell’intimità con lui e con gli altri compagni ai quali continuai a scrivere lettere dalle terre in cui arrivavo.
Partimmo il 7 aprile del 1541, il giorno in cui compivo 35 anni. Il viaggio fu lungo e faticoso, durò quasi un anno. Da quando dunque arrivai in India, prima a Goa, poi nel sud del Paese, non mi sono fermato un istante: percorrevo con assiduità i villaggi, amministravo il battesimo ai bambini che non l’avevano ancora ricevuto e mi prendevo cura dei malati e degli ultimi. Così ho salvato un numero grandissimo di bambini, i quali, come si dice, non sapevano distinguere la destra dalla sinistra. I fanciulli poi non mi lasciavano né dire l’Ufficio divino, né prendere cibo, né riposare fino a che non avevo loro insegnato qualche preghiera; allora ho cominciato a capire che a loro appartiene il regno dei cieli.
Perciò, non potendo senza empietà respingere una domanda così giusta, a cominciare dalla confessione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnavo loro il Simbolo apostolico, il Padre nostro e l’Ave Maria. Mi sono accorto che sono molto intelligenti e, se ci fosse stato qualcuno a istruirli nella legge cristiana, non dubito che sarebbero diventati ottimi cristiani. Spesso, anche se all’inizio non conoscevo la lingua delle popolazioni, la prima cosa che facevo era battezzare i bambini. Ne ho battezzati migliaia. Li guardavo negli occhi e li battezzavo nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo convinto che in qualche modo l’amore di Cristo, che forse traspariva dai miei gesti, sarebbe arrivato loro. C’era urgenza di battesimo perché un popolo di battezzati è sempre un popolo di salvati.
Quindi prima arrivi a Goa in India, poi vai dai Paravas, i pescatori di perle nel sud del paese, poi in Indonesia, dove erano senza sacerdoti, in Malesia, e infine Cipang, il Giappone, per due anni. Perché hai sentito di dover andare in questo Paese al tempo completamente nuovo per l’Occidente e come sei stato accolto?
Per l’esperienza che ho avuto del Paese mi è piaciuta molto la gente: è la migliore che ho scoperto, e mi sembra che fra la gente pagana non se ne troverà un’altra che sia superiore ai giapponesi. Era gente di ottima conversazione e generalmente buona e non maliziosa, gente straordinariamente onesta e che stimava l’onore più di qualunque altra cosa, era gente in generale povera e la povertà, i nobili e coloro che non lo sono, non la reputavano una vergogna. Erano sobri nel mangiare e gran parte di loro sapevano leggere e scrivere, e questo era un grande mezzo per imparare in breve le orazioni e le cose di Dio. Non avevano più di una moglie.
Era un Paese dove esistevano pochi ladroni, e questo per la severa giustizia che esercitavano verso coloro che scoprivano essere tali, poiché a nessuno risparmiavano la vita: detestavano molto e in ogni maniera il vizio del furto. Era gente di grande buona volontà, molto socievole e desiderosa di apprendere. All’inizio sentivo che erano molto disposti ad accogliere la fede ma presto ho capito che, per poter entrare nei loro cuori, dovevo prima comprendere e convertire la Cina. Ho provato in ogni caso a parlare con il loro imperatore ed ho fatto un un lungo viaggio a Miyako ma non è andato a buon fine. Così ho deciso che, anche se era un Paese vietato agli stranieri e pericoloso, dovevo andare in Cina.
Credetemi: voi che verrete da queste parti, sarete ben provati per quello che siete, e per quanta diligenza voi abbiate nel conquistare e ottenere molte virtù, fate conto che non ne avrete d’avanzo. Non vi dico queste cose per farvi capire che è una cosa difficile servire Dio e che non è né lieve né soave il giogo de! Signore, ma se gli uomini si preparassero a cercare Dio, prendendo e abbracciando i mezzi necessari a ciò, troverebbero tanta soavità e consolazione nel servirlo, che tutta la ripugnanza che provano nel vincere se stessi, sarebbe per loro più facile eia combattere se sapessero quale diletto e contentezza di spirito perdono per non sforzarsi nelle tentazioni. Queste, dunque, sogliono impedire nei deboli il grande bene e la conoscenza della somma bontà di Dio e il riposo per questa vita faticosa, poiché vivere in essa senza godere di Dio non è una vita, ma una morte continua
Francesco Saverio non arrivò mai n Cina. Il 21 luglio 1552 arrivò a Singapore e poco dopo raggiunse l’isola di Sancian, davanti alla costa cinese e alla città di Canton. Nessun mercante lo portò mai sulle coste cinesi. Lì incontrò molte difficoltà e molti di coloro che lo seguivano lo abbandonarono; Saverio si ammalò di una febbre fortissima e morì il 3 dicembre 1552 a 46 anni. Fu sepolto nella chiesa dei Gesuiti di Goa, ma la reliquia de suo braccio destro, che per migliaia di volte impose il Battesimo, fu inviata a Roma, dove si conserva, dal 1614, in un reliquiario della Chiesa del Gesù, chiesa madre dell’ordine.