Le Clarisse di Lovere: “Tutto andrà bene, l’amore ci farà risorgere dalle macerie”

Sorelle Clarisse del Monastero di Santa Chiara a Lovere (Bergamo)

«I miei occhi grondano lacrime,
notte e giorno senza cessare.
Da grande calamità è stata colpita la figlia del mio popolo,
da una ferita mortale» (Ger 14,17)

Solo chi sente di appartenere a un popolo può vivere la preghiera cristiana, darle corpo e anima.
Appartenere a un popolo significa respirare con lui, camminare con lui, sentire con lui… soffrire e lottare con lui.
Si entra in monastero non per cercare solitudine, tranquillità, sicurezza, ma perchè amati e salvati dentro un popolo.
Mai come in questi giorni, sentiamo che la nostra vita appartiene a quella “figlia del mio popolo colpita da grande calamità”, la cui ferita mortale ci toglie ogni parola e ci lascia solo le lacrime, senso di impotenza e smarrimento.
E più che mai in questi giorni siamo chiamate a fare memoria di quel Figlio che è nato da un popolo, ha vissuto, amato, sofferto con il suo popolo: uno di noi, uno come noi.
Da allora la nostra storia, ogni storia, può diventare la storia di Gesù.
Non sappiamo come vivremo i giorni pasquali del venerdì e del sabato santo, ma in quei giorni ascolteremo le parole della sua debolezza, della sua angoscia, del suo abbandono…
«Sono sfinito, l’acqua mi giunge alla gola.
Affondo in un abisso… non ho nessun sostegno… i miei occhi si consumano nell’attesa.
Sono come acqua versata, il mio cuore è come cera, si scioglie in mezzo alle mie viscere.
Arido come un coccio il mio vigore, deposto su polvere di morte.
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Grido di giorno e non rispondi; di notte, e non c’è tregua per me.
Eppure, dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio.
Non stare lontano da me, perché l’angoscia è vicina e non c’è chi mi aiuti».
Queste parole non sono forse oggi le nostre parole? Le parole della gente che si ammala, che vede i suoi cari morire senza poter dar loro un saluto, che cura e resta accanto agli ammalati ma sente le forze venire meno; la gente che perderà anche quel poco che aveva e non sa come potrà rialzarsi; la gente che grida e non trova risposta…
Se la storia di Gesù è diventata la nostra storia, anche il suo destino sarà il nostro destino:
«Il Figlio dell’uomo sarà consegnato… perché venga deriso e flagellato e crocifisso. E il terzo giorno risorgerà».
Il dolore, la fatica, le lacrime, la morte che vediamo e viviamo in questi giorni, possono farci dimenticare la gioia, il bene, la vita che gratuitamente abbiamo ricevuto; possono farci dimenticare quel Figlio dell’uomo, il suo destino, l’alba del terzo giorno. La preghiera che annoda la nostra vita di sorelle a quella del popolo è questo grande “ricordo”, perché fare memoria, celebrare, è il modo cristiano di rendere presente la salvezza di Dio, la potenza del suo amore. L’amore ci farà risorgere dalle macerie di questo lungo sabato santo, come ha fatto risorgere Gesù.
Una donna, lei pure sorella per il popolo, Giuliana di Norwich, sapeva quanto fosse importante non dimenticare, e fu proprio il ricordo dell’amore che ha vinto la morte a darle questa fiducia: “tutto andrà bene”.
Sì “andrà tutto bene”, lo diciamo in tanti in questo tempo di grande buio.
Ma non è una scaramanzia, un facile slogan per stemperare la tensione: se siamo morti con Cristo, crediamo che risorgeremo anche con lui! Quello che sta vivendo il nostro popolo è una grande Pasqua.
La vera speranza comincia da qui.
«Coraggio, popolo mio! Non temete, perché io sono con voi, dice il Signore» (cfr. Bar 4,5; Ag 2,4-5).

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