Dopo il sequestro, il missionario Pierluigi Maccalli torna in Niger

Come ricordo del suo tempo di detenzione, il missionario ha portato con sé un anello della catena. “Per ricordare che solo chi ha portato le catene gioca la sua vita per la libertà degli altri”.

Pierluigi Maccalli, detenuto come ostaggio da gruppi di ispirazione salafista per oltre due anni, è tornato nel Niger, luogo del suo rapimento, per qualche giorno. Il ritorno al Paese è caduto alla stessa data d’inizio della prigionia nella savana del Burkina Faso prima e nell’immenso deserto del Sahara poi. L’inizio e la fine. Tra questi simbolici momenti, due anni di cattività in solitudine, con tanto di catene durante le lunghe notti stellate del deserto. Pierluigi è da allora molto attento agli sviluppi delle trattative per altri ostaggi come lui, detenuti nel Sahel e altrove. Le sue sono state catene di libertà perché lo hanno trasformato in ostaggio della pace, delle parole e delle mani disarmate.

Accade però, per chi non ha avuto lo stesso drammatico privilegio dell’amico e confratello citato, che si viva come ostaggi senza saperlo o volerlo. Oppure può succedere che si preferisca vivere da ostaggi per non rischiare quanto di più pericoloso c’è nella vita e cioè la libertà. Pierluigi vedeva, sentiva, soffriva le catene ai piedi. Per circa un mese è stato incatenato notte e giorno ad una catena lunga un metro e venti centimetri. Solo i cani, forse, possono capire cosa ciò significhi per una persona abituata a muoversi, viaggiare e decidere dove andare. C’è chi non si accorge di essere incatenato, proprio come lo è stato Pierluigi, e si accontenta del cibo che gli viene elargito nel quotidiano.

Ci sono gli ostaggi della miseria, creata, riprodotta, accettata come ineluttabile e talvolta mantenuta perché così sembra funzionare il mondo da che è mondo. C’è chi nasce per vivere da schiavo, rassegnato al proprio destino scritto sul libro di sabbia e chi invece può permettersi di decidere il tipo di futuro che avrà lui e i suoi figli. Ostaggi del mondo umanitario che prospera proprio dove più forte risuona il grido degli ostaggi della malattia che uccide più delle guerra, chiamata fame. Ostaggi ai quali, spesso, nessuno ha mai detto che quanto scritto sul libro del destino non è che sabbia che il vento disperde. Un altro mondo è possibile quando le catene invisibili sono riconosciute come tali.

Seguono, nel Sahel, questo spazio straordinario di storia, culture, tradizioni, confitti e avventure, gli ostaggi della paura. Paura per l’oggi, l’arrivo possibile dei gruppi armati che dettano legge e morte. Paura per il domani, la semina, i raccolti, i granai, le tasse da pagare per persona, le conversioni forzate, l’arruolamento nella nebulosa jihadista, che mercanteggia religione, oro, droga, armi e gli anni migliori dei giovani. Paura per la delazione che rende tutti sospettosi anche all’interno delle famiglie e dei villaggi nei quali per decenni si è convissuto in relativa armonia e accettazione delle diversità. Poi arrivano le identità fomentate e dunque escludenti, mortali e divisive.

E infine, gli ostaggi forse meno riconoscibili e forse anche per questo assai deleteri. Sono gli ostaggi della menzogna che impera tramite la retorica che svende i mezzi per giustificare il fine. Si associano, appoggiano, giustificano, difendono e si arruolano al pensiero dominante del momento. La politica non serve e i diritti umani sono merce di scambio ideologico perché ciò che conta è il bene del popolo così come un gruppo di ‘illuminati’, spesso armati, decide sia tale. Ostaggi che infiltrano ciò che rimane dei partiti, sindacati, mezzi di comunicazione e persino le medaglie al merito sul campo.

Aveva ragione l’amico Pierluigi. Diceva che possono incatenare i piedi ma non il cuore e lo spirito. Come ricordo del suo tempo di detenzione ha portato con sé un anello della catena. Per ricordare che solo chi ha portato le catene gioca la sua vita per la libertà degli altri.

Mauro Armanino, Niamey, ottobre 2024

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