Dopo la laurea in medicina, Dominique Corti decide di dedicare la sua vita alla Fondazione Corti per portare avanti l’impegno dei suoi genitori in Uganda: garantire cure e assistenza medica ai più bisognosi
di Anna Moccia
Fondato nel 1959 per la Diocesi di Gulu, in Uganda, dai missionari comboniani, il St. Mary’s Hospital Lacor è diventato l’impegno di una vita dapprima per i coniugi e medici Lucille Teasdale e Piero Corti, che dal 1961 l’hanno gestito per ben 35 anni, poi per la loro figlia Dominique, presidente della Fondazione Corti, che dal 1993 affianca e sostiene l’ospedale. Da piccola struttura di 30 posti letto, oggi il Lacor Hospital è uno dei maggiori centri sanitari dell’Uganda, nonché il più grande ospedale senza scopo di lucro dell’Africa orientale, con 554 posti letto e oltre 700 dipendenti tutti ugandesi. Nell’intervista rilasciata a Terra e Missione, Dominique Corti ci racconta l’incredibile storia dell’impegno umanitario che ha cambiato le sorti di migliaia di persone in Uganda e che da oltre 50 anni permette all’ospedale di perseguire la sua missione: garantire le migliori cure possibili, al maggior numero di persone e al minor costo.
Da dove nasce il tuo amore per l’Uganda e per questo progetto?
«Quest’ospedale è sempre stata un po’ casa mia e fin dall’inizio ho pensato che avrei seguito le orme dei miei genitori. Da bambina mi ritrovavo spesso a disegnare sui letti dei pazienti o nell’angolo della sala operatoria. Da adolescente ho iniziato ad aiutare mia madre con piccoli lavoretti in ambulatorio, come misurare la pressione, e più tardi facendo la ferrista durante gli interventi. Poi per diversi anni mi sono allontanata dall’Africa. Ho studiato in Italia e mi sono laureata in Medicina e Chirurgia. L’idea era quella di lavorare come medico in Uganda ma poi ho capito che non avrei fatto la differenza. In Africa sono già tanti i progetti che nascono ma che poi non sono in grado di sopravvivere quindi ho pensato che il miglior modo per rendermi utile fosse occuparmi della Fondazione che i miei genitori avevano creato per mantenere in vita l’ospedale».
Qual è la tua missione in Fondazione Corti? E chi gestisce oggi l’ospedale?
«Quando mi sono laureata l’ospedale era già praticamente “africanizzato”. In Uganda c’erano ottimi professionisti che senza fondi rischiavano di non poter lavorare. Avevamo soprattutto bisogno di finanziamenti liberi, con cui far fronte alle priorità locali senza subire le pressioni dei grandi donatori. I miei genitori avevano creato la fondazione nei primi anni ’90 con l’obiettivo di raccogliere fondi ma anche per fare in modo che, quando l’ospedale non avesse più avuto direttori italiani, ci sarebbe stato un organismo in Italia in grado di fare rete. E così è stato: dopo la morte di mia madre, che ha contratto l’HIV durante un’operazione, e in seguito di mio padre, dal 2008 la direzione dell’Ospedale è stata affidata a tre medici ugandesi, che lavorano in totale sintonia e rispetto reciproco. Abbiamo anche la fortuna di avere i missionari comboniani al nostro fianco: ad oggi uno di loro è a capo del dipartimento tecnico, un altro è tecnico di radiologia. E la mia sfida, che è anche la mia missione, è quella di sostenere la Fondazione, raccogliendo fondi da amici, enti privati, o programmi di organismi internazionali che finanziano particolari progetti. Infatti, nonostante siano passati più di 10 anni dalla fine della guerra, la popolazione è ancora molto povera per cui ai pazienti richiediamo solo cifre simboliche. Ad esempio, il ricovero dei bambini sotto i sei anni e quello delle donne incinte costa soltanto dai 20 ai 40 centesimi di euro».
Come immagini il futuro di quest’ospedale?
«Entrambi i miei genitori sono morti senza che si potesse neanche sperare nella fine del conflitto in Uganda. Al di fuori dell’ospedale la situazione era orribile. Noi vivevamo come in una bolla spazio-temporale e per anni siamo stati isolati dalla guerra, c’era solo tanta povertà. Pensavamo che una volta finito il conflitto tutto sarebbe stato più semplice ma in realtà è diventato ancora più complesso. Una sfida importante è sicuramente quella finanziaria: le nuove tecnologie hanno fatto esplodere i bisogni e i costi dell’ospedale, specie per la manutenzione delle apparecchiature medicali o per la formazione del personale che sia in grado di utilizzarle e ripararle. Un’altra sfida importante riguarda la mobilità del personale, spesso attratto da migliori tecnologie o da condizioni retributive più vantaggiose offerte dagli ospedali a scopo di lucro o dalle grandi organizzazioni internazionali. A questa sfida cerchiamo di rispondere attraverso le nostre scuole di formazione per professionisti della sanità: infermieri, tecnici di laboratorio, medici. Cura, formazione, progresso. Perché il futuro inizia ogni giorno, da una persona guarita, da una vita salvata dalla povertà». [Intervista VIDEO]
Crediti Foto: Mauro Fermariello