“Mentre i re della terra si fanno riconoscere nello sfarzo e nell’ostentazione della ricchezza e del potere, il Re del cielo si lascia riconoscere soltanto in Gesù che entra a Gerusalemme a cavallo di un puledro. La vera maestà si nasconde nell’umiltà”. Suor Renata Conti*, missionaria della Consolata, commenta il Vangelo della Domenica delle Palme.
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 19,28-40)
In quel tempo, Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme. Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli dicendo: «Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale non è mai salito nessuno. Slegatelo e conducetelo qui. E se qualcuno vi domanda: “Perché lo slegate?”, risponderete così: “Il Signore ne ha bisogno”». Gli inviati andarono e trovarono come aveva loro detto. Mentre slegavano il puledro, i proprietari dissero loro: «Perché slegate il puledro?». Essi risposero: «Il Signore ne ha bisogno». Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. Mentre egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada. Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo: «Benedetto colui che viene, il Re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!». Alcuni farisei tra la folla gli dissero: «Maestro, rimprovera i tuoi discepoli». Ma egli rispose: «Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre».
Domenica delle Palme: Gesù, Re umile in groppa a un asino
Il percorso dei primi tre Vangeli è un lungo cammino di Gesù verso Gerusalemme, la città del tempio e del palazzo reale, il luogo del potere religioso e civile. Gesù sa che sale a Gerusalemme per andare a morire. Si incammina accompagnato dai discepoli e dal popolo ed entra in Gerusalemme come un Re umile, un Re che si fa trovare non nell’essere sopra gli altri, ma nell’essere per gli altri.
Il primo contenuto di questa entrata a dorso di un puledro, secondo il Vangelo di Luca, è l’affermazione di essere il Messia proclamato dai profeti. Il Messia doveva nascere dalla discendenza del re Davide1 e Gesù nasce dalla discendenza di Davide , ma è figlio di un umile e nascosto falegname di Nazareth2.
Gesù nasce sì nella città di Davide, ma non in una reggia, nasce in un alloggio di periferia, lontano dal centro città, in una sistemazione precaria. E nonostante tutto, le profezie che annunciavano il Messia, il Cristo, l’Unto, ossia Colui che rientra nella promessa fatta da Dio a Davide, oggi si compiono. Eccolo perciò su un puledro di asina, nell’umiltà più assoluta. Gesù vuole indicare un messianismo diverso che non fosse esclusivamente davidico per evitare di dare al suo operare un sapore troppo nazionalistico.
Non c’era consenso in Israele sulla figura del Messia. Per alcuni, il Messia doveva essere un rivoluzionario che avrebbe cacciato i romani; per altri addirittura non si sarebbe trattato di una persona fisica, ma si un periodo storico3.
Gesù entra in Gerusalemme su un puledro, e così facendo si fa riconoscere dal popolo più vicino a lui, come il Messia di cui avevano parlato i profeti. In Gesù la speranza del Messia è compiuta, è visibile, è realmente presente. È arrivato l’uomo di Dio, è arrivato il Re che porta la vera pace.
Ma perché questo Re sale a Gerusalemme in groppa a un puledro? I re di solito vanno a cavallo. Gli imperatori romani sfilavano in trionfo a poche centinaia di metri da qui su un cocchio trainato da molti cavalli, e il Re d’Israele deve andare in groppa a un puledro?
Questo è un segno di mansuetudine, che sarebbe più appropriato tradurre con “umiltà”. Il Messia d’Israele è un Re umile. È un Re che non ostenta la sua forza e il suo potere. Al tempo di Gesù tutti i re, secondo l’uso orientale, pretendevano la proskynesis, ossia l’inchino di adorazione… Questo Re umile d’Israele era uno che andava a toccare i lebbrosi, i ciechi, i paralitici, coloro che erano senza speranza. Questo è il senso racchiuso nella cavalcatura: «Gesù, pur essendo di natura Divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma svuotò se stesso assumendo la condizione di servo» (Filippesi 2,6-7). Mentre i re della terra si fanno riconoscere nello sfarzo e nell’ostentazione della ricchezza e del potere, il Re del cielo si lascia riconoscere soltanto in Gesù che entra a Gerusalemme a cavallo di un puledro. La vera maestà si nasconde nell’umiltà di questa entrata, la maestà del Messia d’Israele si svuota, si riveste unicamente di umiltà, di contatto, di incontro, assumendo il dolore del suo popolo. Non è venuto, infatti, per essere servito, ma per servire e dare la vita4.
La folla riconosce in Gesù il Messia e lo celebra al suo passaggio. Le grida di gioia e le benedizioni indicano che la missione di Gesù era ormai di dominio pubblico. Tutti sapevano chi veramente era. Israele riconosce il suo Messia e gli rende l’onore e la gloria che gli sono dovuti. Ma soltanto cinque giorni dopo un’altra folla, formata da persone sobillate dai suoi nemici, invocherà una tortura infamante e griderà la sua condanna a morte.
La folla nella Bibbia è sempre un elemento dubbio, turbolento, la folla ha sempre troppi sogni e troppo pochi ricordi; è umorale, non ragiona e non riflette. Però in questo momento la folla di Gerusalemme rende onore al Messia e lo celebra. Da quell’istante nessuno a Gerusalemme può permettersi di ignorare Gesù. Ciascuno deve prendere posizione. Anche noi, oggi siamo chiamati a prendere posizione: o per Lui o contro di lui!5
La folla ondeggia inizialmente dalla sua parte, poi i capi religiosi tramano la sua morte, i discepoli fuggono, Pietro lo rinnega per tre volte. In cinque giorni Gesù è solo.
La pace che questo Messia è venuto a portare è la pace con Dio. Una pace di un prezzo inestimabile, può essere comprata soltanto con il sangue di Gesù. Per questo il Messia rimarrà solo e abbandonato da tutti nel momento in cui pagherà per la pace e per la giustizia che non hanno altro prezzo che le sue sofferenze e la sua morte. Nel racconto di Luca qui inizia l’ultima fase dello scontro con il potere religioso e con i farisei.
Alcuni di loro vogliono che Gesù rimproveri i discepoli, che li faccia tacere. Perché i discepoli dovevano tacere? Perché non era ammesso un Messia contestabile. Non era ammesso un regno presente, ma non evidente. Non sarebbe stato ammesso un Messia sconfitto agli occhi del mondo. Ma è proprio nel momento dell’evidente sconfitta di Gesù, che è il momento della sua morte, un cartello posto sopra la sua testa lo dichiara Re, Re dei Giudei.
Ma egli rispose: «Vi dico che se costoro tacciono, le pietre grideranno». I discepoli taceranno dopo la sua morte. Sembrerà la vittoria dei farisei. Ma una sola pietra griderà talmente forte, da non poter essere zittita fino ad oggi. Luca 24,2: “E trovarono che la pietra era stata rotolata dal sepolcro”. Non c’è mai stata una contestazione efficace alla testimonianza della pietra. Il grande sconfitto ha riportato la più grande delle vittorie: la vittoria sulla morte. E si è presentato vivente ai suoi e a più di cinquecento persone, come riporta l’apostolo Paolo (I Corinzi 15,2), cioè a un numero inoppugnabile di testimoni.
Da quel giorno di Pasqua il grido della pietra rotolata non è stato zittito. Da quel giorno il Regno di Cristo è vincente anche senza essere evidente, è convincente anche senza essere ostentato. Il Re che va a morire per noi tutti. Il Re che entra umile nella sua capitale non per mandare altri a morire per lui come hanno sempre fatto e sempre faranno i re della terra, ma per essere lui ad andare a morire per gli altri.
Delude chi si aspetta un regno evidente, tradizionale e piccolo. Delude chi proietta nel Regno di Dio il pensiero di un regno umano. Ma chi cerca un Regno eterno di pace in cielo e gloria nei luoghi altissimi, chi cerca un Re eterno che conduce i suoi alla vita eterna, non resterà mai deluso.
1. Sono principalmente i Vangeli di Matteo e Luca a fornirci la notizia della discendenza davidica di Gesù (cf. Mt 1,20; 9,27; 12,23; 15,22; 20,30.31; 21,9.15; Lc 1,69; 18,39; 20,41.42), ma anche altri testi lo confermano (Mc 10,47.48; Rom 1,4; 2 Tim 2,8).
2. Gesù sembra prendere le distanze da una origine davidica pura e semplice. Nel suo ministero a Gerusalemme, per esempio, ragionando secondo le prospettive esegetiche del suo tempo, ne rimette in discussione il senso: «Come mai dicono gli scribi che il Messia è figlio di Davide? Davide stesso [= il Salmo 110], infatti, ha detto, mosso dallo Spirito Santo: Disse il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici come sgabello ai tuoi piedi» (Mc 12,35). E aggiunge: «Davide stesso lo chiama Signore: come dunque può essere suo figlio?» (Mc 12,37)
3. In effetti, il messianismo è sostanzialmente un fenomeno che esprime la speranza in un futuro radioso per il popolo d’Israele, e non solo, verso «nuovi cieli e nuova terra» (Is 65,17; 66,22; 2Pt 3,13; Ap 21,1) con l’intervento mediatore di un personaggio inteso come ultimo rappresentante e luogotenente di Dio[5]. Per la verità nell’Israele antico esisteva un messianismo senza Messia, secondo cui alla fine dei tempi sarebbe intervenuto Dio stesso ad operare in prima persona la redenzione completa di Israele, oltre che del cosmo intero. Il concetto profetico di «giorno del Signore» (Am 5,18-20; Gl 2,1.11; 3,4; Abd 15 Sof 1,7.14-18; 2,2-3; Zac 14,1; Mal 3,23) esprime appunto l’attesa di questo intervento divino per la purificazione di Israele (cf. Is 4,4-5) e l’instaurazione di una novità cosmica.
4. Mc10,35-45
5. Lc. 11,14-23
* Suor Renata Conti è suora missionaria della Consolata. Ha vissuto la sua missione per molti anni in Colombia. Ha studiato Teologia Biblica nell’Università Gregoriana di Roma, e attualmente è postulatrice delle cause di canonizzazione della Beata Irene Stefani, della Beata Leonella Sgorbati, missionarie della Consolata, e collabora nel processo di canonizzazione del Fondatore, il Beato Giuseppe Allamano.